Messina, i fritti della memoria
Suffrittu, arancini, pitoni, la cucina che ha fatto storia.
In un territorio come quello messinese ove le memorie, più che altrove, sono state mosaicizzate dalle vicende storiche e da uno degli avvenimenti non bellici, più drammatici della storia d’Italia e d’Europa nel XX secolo come fu il sisma del 1908, le testimonianze della tradizione della cucina sono quelle che meglio hanno superato il deterioramento degli anni. Frammenti di sapori e gusti dei piatti tipici popolari del messinese che offrono il miglior contributo alla rivalutazione della gastronomia locale, e la frittura, con tutte le sue articolazioni, ne è la più aulica definizione. In questo quadro una eccellenza messinese della cucina povera, era un piatto, un tempo diffuso e amato, che la popolazione con meno risorse economiche preparava, sopperendo così con fantasia alla impossibilità di ricorrere a tagli pregiati di carne. Era il “soffritto”, u suffrittu, con le interiora di vitello o maiale, milza, polmone e trachea, il cosiddetto “campanaro”, la cui mescolanza dava vita a uno dei piatti meno nobili della cucina messinese ma uno tra i più gustosi.
E all’inizio della bella stagione, come auspicio di abbondanza, ma forse per ammorbidire il sapore di quel fritto si usava accompagnarlo con a “frittedda di primavera”, consumata sia nella versione calda, o fredda, in agrodolce, aggiungendo aceto per il fritto in olio abbondante di carciofi, piselli, fave, qualche foglia di lattuga, cipolle e scalogno. Se poi era tempo di festività le frittelle di farina non mancavano nei giorni dell’Immacolata, di Natale o S. Giuseppe, dando sapore di straordinarietà alla festa. Ma il prodotto tipico ed unico nel panorama siciliano dei fritti, è il pitone messinese di estrazione contadina; u pituni tradizionalmente preparato in casa, il 25 marzo per il giorno dell’Annunciazione, negli ultimi sessanta anni è divenuto una tipicità dei rustici messinesi che rosticcerie e panifici propongono insieme all’arancino messinese. Quest’ultimo a Messina, sia quello al sugo a forma appuntita che quello al burro a forma sferica, ha conquistato la valenza di “passaporto” dell’Isola, perché almeno fino a metà degli anni settanta, era la tappa d’obbligo per i passeggeri dei treni delle Ferrovie dello Stato che traghettavano a bordo dei ferry boat nello Stretto. Era un ritorno alla sicilianità per i tanti emigranti che attraversavano ’u strittu o per i turisti scopritori del “continente culturale” anche assaporando quel pezzo di rosticceria frutto delle influenze gastronomiche delle varie dominazioni subite dalla città di Messina; greca col formaggio fresco a dadini frammisto nella farcitura; l’araba con riso e zafferano; francese per il ragù; spagnola per il pomodoro. Con il progressivo disimpegno del trasporto ferroviario nello Stretto la “consuetudine” arancino in navigazione è forse diminuita nelle quantità ma non nell’attenzione di turisti, o dei nuovi consumatori come, studenti fuori sede che tornano in vacanza e camionisti che non resistono nei punti bar dei traghetti pubblici o privati, a quello spuntino, aperitivo o pranzo della memoria.
Gli arancini alla messinese nel tempo, sono divenuti comunque un must tipico della cucina del territorio peloritano, quali, tesori di rosticceria spesso fatti in casa, proposti in passato nella città dello Stretto dagli storici gastronomi Nunnari e Borgia e dal 1987, dai fratelli Famulari che si sono cimentati nel diversificarli con oltre quaranta tipi di diverso ripieno. All’arancino dalla forma conica a pera, per agevolarne la funzionale presa dalla punta, nel portarlo alla bocca, è stato attribuito anche il riconoscimento P.A.T. (Prodotto Agroalimentare Tradizionale Italiano) dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali che gli ha riconosciuto il nome “arancini di riso”, prodotto di eccellenza della gastronomia siciliana.