Il popolo sceglie sempre Barabba
In nome della caccia all’untore si abdica dalla saggezza e non si tutela la “debolezza”
In principio fu il cinese, poi il milanese, il fuorisede, il runner, quello che passeggia col cane, il vicino di casa.
In tempi di peste, la ricerca dell’untore, ruota come in una spirale illusoria. Un’onda che, dopo l’avvio, trae moto da se stessa. Nel mirino c’è sempre qualcosa d’ altro da se stessi da focalizzare, da inquadrare, da annientare.
In principio, ancora una volta, fu il verbo. La parola fattasi poi, lentamente, corpo.
“Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti. Il regista faceva sorridere col suo : “continuiamo così facciamoci del male”. Ma da ridere c’è poco. Qui si è pronti ad odiare. Si fa prima.
La metafora stessa della guerra, lanciata nel messaggio comunicativo, ha fatto le sue vittime. Ha innalzato trincee, ha armato i disertori dalla ragione, i diseredati dalla ars politica. In questa grande battuta di caccia importa la preda: è colpevole per definizione. Uno sport, una gladio, un gioco, dove nell’arena mediatica si dà l’untore in pasto alle masse.
Vero o presunto poco importa: the show must go on.
Alzando la voce abbiamo ovattato i suoni deboli. Non li sentiamo più.
Così la debolezza, che andava tutelata, è finita sopraffatta. Un governante deve essere saggio, auspica il filosofo Galimberti. La saggezza, parola antica, magica, sepolta come un Graal, capace di fermezza, fierezza ma anche di audace debolezza.
Siamo deboli, davanti ad un pericolo di pochi micron che ci annienta non solo nelle carni.
Abbiamo bisogno di parlare sottovoce, tutelare i deboli, i bambini atterriti dai megafoni, i malati sparsi nei corridoi, i vecchi che non ce la fanno a camminare ed i tanti adulti ai quali fa paura pensare.
Abbiamo visioni escatologiche sul cambiamento, nel frattempo aizziamo le masse.
Dimenticando che le masse scelgono sempre Barabba.