Il cioccolato tra storia, letteratura e… pandemia
In tempo di Pandemia la vendita di cioccolato è aumentata ed il consumo ha fatto registrare un più 10,7 per cento, confermando la denominazione di “comfort food”, cibo che dà conforto.
Il viaggio via mare è stato quello che ha consentito la conoscenza e l’approvvigionamento del cacao nel mondo ed in particolare in Europa, ma la navigazione culturale, tra intellettuali e scrittori, è quella che, ha contribuito a far conoscere del cioccolato gli aspetti più intimisti dell’elisir di felicità. Come Isaac D’Israeli (1766 – 1848), lo scrittore inglese che nel suo “Introduction of Tea, Coffee, and Chocolate” che ne scrisse dell’uso smodato nel XVII secolo, considerata una bevanda così violenta da suscitare delle insolite passioni con tanto di divieto ai monaci di berlo. L’erudito spagnolo Marcos Antonio de Orellana (1731- 1813) aveva scritto in proposito: “Oh, divina cioccolata / ti macinano in ginocchio / con le mani ti battono pregando / e ti bevono con gli occhi al cielo!”.
Carlo Goldoni, gran bevitore della cioccolata, la cita nella sua commedia “La bottega del caffè” e poi anche nella “Locandiera”. Gasparo Gozzi intellettuale e fondatore della Gazzetta Veneta (1713 – 1786) nel 1760 elogiava la cioccolata presentando Giovanni Trento, fabbricatore di cioccolata, come uno dei migliori di Venezia: “L’abbrustolatura del Cacao, come sopra, le dà il sapore assai grato, ed aumenta la rendita nella macinatura (…) Avvisasi in oltre il Pubblico, che sendo il Buttiro di Caccao per le sue qualità benefiche assai conosciuto, ed usato, il suddetto Giovanni Trento ha l’arte di fabbricarlo in modo, che mai irrancidisce, come all’incontrario accade pur troppo quando non sia con tal perfezione manipolato”. Giovanni Francesco Pivati nel suo Nuovo Dizionario Scientifico del 1746 scriveva che la cioccolata: “In qualunque maniera sia presa è un buon ristoratore per rimettere le forze resiste alla malignità degli umori, fortifica lo stomaco, il cervello e altre parti vitali. Eccita la digestione e abbassa i fumi del vino in specie la mattina del dopopranzo”.
Giacomo Casanova nella sua autobiografica “Storia della mia vita” non se ne perde una tazza, per rinvigorirsi la sorseggia e la cita più di 100 volte. Anche Alessandro Manzoni non è da meno, e fa prendere alla sua Gertrude “una chicchera di cioccolata” per ridestarsi.
In “Casa desolata” (Bleak House) (1853) nono romanzo di Charles Dickens, pubblicato fra il marzo 1852 ed il settembre 1853, l’anziana impoverita signorina Flite rivela le sue pretese aristocratiche ormai fuori uso sulle abitudini di bere cioccolata. E sempre Dickens nel “Racconto delle due città” (1859), torna sul tema con un ritratto satirico sull’aristocrazia francese della fine del XVIII secolo: “Monsignore era nell’atto di prendere la sua cioccolata. Monsignore poteva trangugiare facilmente una gran quantità di cose, e alcuni pochi malcontenti supponevano che stesse trangugiando piuttosto rapidamente la Francia; ma la sua cioccolata mattutina non poteva arrivare fino alla bocca di monsignore, senza l’aiuto di quattro uomini validi, oltre il cuoco (…) Una gran macchia si sarebbe diffusa sul suo stemma, se la cioccolata fosse stata servita soltanto da tre persone: e se fosse stata servita da due egli sarebbe addirittura morto”.
Agli inizi del XX secolo la cioccolata sarà stata sdoganata, venduta nei negozi come riferisce il drammaturgo irlandese James Joyce (1882-1941) in “Gente di Dublino”: ” Ci comprammo un po’ di biscotti e di cioccolata e ce li mangiammo pian piano vagabondando per le squallide viuzze dove abitavano le famiglie dei pescatori”.
Miguel Ángel Asturias scrittore guatemalteco (1899-1974) nel suo epico “Uomini di mais” menziona la cioccolata nunziale: “Cercò la pomata contro le palpitazioni di cuore. Più che altro si trattava di peso sullo stomaco. Si stese un momento. Perché poi le piaceva tanto la cioccolata? Ma era così buona la cioccolata, quella dei matrimoni, quella dei battesimi (…)Le feste si celebrano con la cioccolata e le torte di uccellini”.
Sempre una tavoletta di cioccolata può salvare l’anima del protagonista nel romanzo di Jack Kerouac (1922-1969) “I vagabondi del Dharma”: “Gli ultimi tre chilometri di salita furono terribili e io dissi: “Japhy c’è una cosa sola che vorrei in questo momento più di qualsiasi altra al mondo, più di qualsiasi cosa abbia mai desiderato in vita mia. Cosa? Una bella tavoletta grossa di cioccolata o anche una piccola. Chissà perché, in questo momento una tavoletta di cioccolata mi salverebbe l’anima”.
Gabriel García Márquez (1927-2014) ne “L’autunno del patriarca”, fa usare la cioccolata al patriarca per corrompere il nunzio apostolico e ottenere la canonizzazione della madre, mentre sacro e profano si mischiano in “Chocolat”, libro della scrittrice britannica Joanne Harris, da cui è stato tratto l’omonimo film del 2000, diretto da Lasse Hallström; Nei sogni mi rimpinzo di cioccolatini, mi rotolo nella cioccolata, e la loro consistenza non è friabile, ma morbida come carne, come migliaia di labbra sul mio corpo, che mi divorano a piccoli morsi palpitanti. Morire a causa della loro tenera ingordigia mi sembra il culmine di tutte le tentazioni che abbia conosciuto (…).
L’ambientazione magica evocata, con un costante richiamo del profumo di cioccolata, la si ritrova in “Le scarpe rosse” della stessa Harris. Ma anche Tommaso Landolfi (1908 – 1979) nel suo “Dialogo dei massimi sistemi” scrive: “Ho imparato (…) a conoscere i due unici rimedi contro il dolore la tristezza le paturnie e piaghe simili del genere umano: essi sono la cioccolata e il tempo; per cioccolata intendo ogni specie di cibo dolce o, anche, nei casi meno gravi, non dolce. Voglio dire che quando ci si sente tristi addolorati ecc. basta mangiare un po’ di cioccolata o aspettare un pò di tempo perché tutto si metta matematicamente a bene”.
Più appassionato Leonardo Sciascia (1921-1989) che ne “La contea di Modica” scriveva: “Altro richiamo per restare alla gola, è quello del cioccolato di Modica a quello di Alicante (e non so se di altri paesi spagnoli): un cioccolato fondente di tue tipi – alla vaniglia, alla cannella – da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza, di inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archetipo, all’assoluto , e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il più celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione”.
Più poetico infine il tributo di Gianni Rodari (1920-1980) con una delle sue favole de “La strada di cioccolato”: Tre fratellini di Barletta una volta, camminando per la campagna, trovarono una strada liscia sicché e tutta marrone. “Che sarà?” disse il primo. “Legno non è,” disse il secondo. “Non è carbone,” disse il terzo. Per saperne di più si inginocchiarono tutti e tre e diedero una leccatina. Era cioccolato, era una strada di cioccolato. Cominciarono a mangiarne un pezzetto, poi un altro pezzetto, venne la sera e i tre fratellini erano ancora lì che mangiavano la strada di cioccolato (…).
E in tempo di Pandemia la vendita di cioccolato è aumentata ed il consumo ha fatto registrare un più 10,7 per cento, confermando la denominazione di “comfort food”, cibo che dà conforto, come dice la traduzione letterale, ma soprattutto cibo del cuore mutuando la più nota e scientifica comfort zone degli psicoterapeuti